MANK
Herman J. Mankiewicz, detto “Mank”, è costretto a letto a causa di un incidente automobilistico. Durante i mesi di ricovero e riabilitazione, lo sceneggiatore dovrà dettare alla sua assistente la sceneggiatura per il prossimo film di Orson Welles, un giovane, talentuoso ma borioso regista, riuscito a strappare a una delle majors, la RKO, un contratto esclusivo, per il quale Welles ha la piena libertà e potere di sindacare sul proprio operato. Alternando presente e passato, la pellicola approfondisce la figura di Mank, un uomo estremamente intelligente, ironico e con precise idee politiche che lo porteranno ad avere contrasti con i dirigenti più influenti di Hollywood, che saranno di ispirazione per la migliore sceneggiatura da lui scritta.
David Fincher firma quest’ultima produzione e distribuzione di Netflix, lasciando traccia del suo cinema. Fincher è noto per aver spesso adattato allo schermo diverse opere letterarie, fra queste “Fight Club” dall’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, film iconografico degli anni 2000, “Il curioso caso di Benjamin Button” di Francis Scott Fitzgerald, “L’amore bugiardo – Gone Girl” dall’opera di Gillian Flynn, caratterizzati da uno stile narrativo non lineare.
Infatti, seppure il regista non curi mai la scrittura, affidandola ai suoi competenti colleghi sceneggiatori (in questo caso a Jack Fincher), sceglie sempre soggetti in cui la storia è ricca di flashback e ha una trama intrecciata.
Ritroviamo anche in Mank questo tipo di narrazione, e a omaggiare la forma stilistica tipica della sceneggiatura, ogni salto temporale è annunciato con un’intestazione: INT/EST – LUOGO – GIORNO/NOTTE. Una delle tante sottigliezze insieme a quella di girare interamente in bianco e nero. Da questa scelta, anche la sfida per il reparto di fotografia nel calibrare i chiaro/scuri e riuscire a comunicare quel senso di datato e di valore.
Mank è un omaggio al cinema, a due delle figure che hanno cambiato il metodo narrativo sia scritto che visivo. Per il cinefilo, questo film è una manna, un estasi continua, che tiene incollati allo schermo spinti dalla curiosità di capire quale sia stata la genesi di Quarto Potere (Citizen Kane in originale), la pellicola per eccellenza, tributata anche da Scorzese in Il lupo di Wall Street.
Tuttavia, Mank è fin troppo specifico, di nicchia, ed è quindi facile che lo spettatore si perda nel corso della visione. Soprattutto perché è un film americano.
Nel ripercorrere la vita del giovane Mank, i due Fincher ricostruiscono una pezzo di storia del cinema Hollywoodiano, durante gli anni successivi alla grande depressione. Troviamo, quindi, riferimenti alla politica, che spesso influiva (e tuttora influisce) sulla genesi di un prodotto audiovisivo. Troviamo lo storico conflitto dell’America contro il Comunismo. Mank anche in quanto sceneggiatore, infatti, appartiene a un pensiero politico di sinistra, nettamente in contrasto con il magnate dell’editoria, William Randolph Hearst, e il fondatore della MGM, Louis B. Mayer. Queste divergenze del passato politico coinfluiranno nella scrittura di Quarto Potere, in cui Mank racconta a ritroso della storia di Charles Foster Kane, importante editore che ha scalato le vette del potere grazie alla sua influenza, carisma e alla corruzione.
A interpretare l’alcolizzato sceneggiatore il camaleontico Gary Oldman (candidato a Miglior Attore Protagonista) e il magnate Hearst l’iconografico Charles Dance, famoso per aver prestato il volto a Tywin Lannister de Il gioco del trono.
Mank è in lizza per diverse statuette fra cui “Miglior Film”, “Miglior Regia”. “Miglior Attrice non protagonista” e “Migliore Fotografia”.
Film che raccomanderei soprattutto ai cinefili, ma che consiglieri con riserva come scelta per intrattenere il tempo, data la lentezza e la specificità della storia.
VOTO: 5/10
Articolo a cura di Sara Paterniani