RECENSIONE DUNKIRK
Con Interstellar, Christopher Nolan aveva esplorato lo spazio, regalandoci una delle esperienze più immersive della storia del cinema e trattando nuovamente il tema del tempo e del nostro modo di percepirlo, sua ossessione ormai da anni. I problemi nell’opera del 2014 risiedevano soprattutto nella prima ora e forse in un finale un po’ troppo facile e romantico che avrà scaldato il cuore di molti ma che ha deluso le aspettative di altri.
Dunkirk è un war-movie atipico, in cui la vera novità è la narrazione e il montaggio temporale della pellicola.
Una settimana sul molo, un giorno per mare e un’ora in aria.
Proprio con il montaggio, che ad alcuni può aver ricordato Memento (2000) sempre del regista inglese, Nolan ci mette alla prova, dandoci il compito di rimettere in ordine i pezzi dell’incredibile salvataggio, noto come Operazione Dynamo, e immergendoci in una situazione molto meno movimentata rispetto ad altri film di guerra, ma assolutamente claustrofobica e opprimente.
Il soldato Tommy (un debuttante Fionn Whitehead) ci accompagna lungo la settimana trascorsa sul molo, attraversando una Dunkirk desolata e raggiungendo con gli altri 400.000 superstiti le spiagge che si affacciano sullo Stretto della Manica, da cui si vede vicina la patria, ma non abbastanza da arrivarci senza aiuto.
L’aiuto viene anche da Mr.Dawson (il premio Oscar Mark Rylance), semplice cittadino inglese, esperto di mezzi d’aviazione, che risponde all’appello diramato dall’Ammiragliato britannico di mettere a disposizione la propria imbarcazione per il salvataggio dei soldati oltre la Manica. Lui e altre centinaia di comuni cittadini risposero alla chiamata (la rappresentazione di questo evento ci regalerà anche una delle scene più suggestive del film).
Tom Hardy (alla sua terza partecipazione in un film di Nolan) lo troviamo impegnato nel compito di tenere a bada l’aviazione tedesca, martellante ed esasperante nei suoi continui bombardamenti sui soldati in attesa della salvezza.
Per fare un film che tenesse incollati allo schermo nonostante non si trattasse di un’operazione bellica particolarmente movimentata, e che riguardasse (per quanto sia importante comunque dal punto di vista storico) un salvataggio e non un’azione di conquista, erano probabilmente richieste tre cose:
1)Una durata del film inferiore alle ultime opere di Nolan; una durata che rendesse il lungometraggio asciutto e che non “allungasse il brodo”.
2)Scene suggestive e riprese che facessero vivere la sofferenza prima del tanto desiderato salvataggio. Nolan ci mostra una guerra meno violenta di altre opere come “Salvate il soldato Ryan” o “Hacksaw Ridge”, ma non per questo meno spaventosa e terribile. La brutalità di essa la vediamo nella freddezza del filtro; negli sguardi angoscianti di Kenneth Branagh (Comandante Bolton) al solo sentire l’assordante rumore delle forze aeree del nemico; nella fame di vita dei soldati, in cui anche il più altruista tra loro sarebbe in grado di sacrificare un proprio compagno per tornare a casa; o nel capire il semplice cambio delle correnti marine grazie ai corpi di tutti i soldati annegati che tornano a riva.
3)La colonna sonora. Il sodalizio Nolan-Zimmer ha dato alla luce film accompagnati sempre da incredibili componimenti musicali.
Il ticchettio del tempo che scorre mentre il nemico si avvicina è continuo, insistente, imminente e soprattutto inevitabile, e questo i soldati inglese e francesi lo sanno. Il tic-tac dell’orologio svanisce proprio in un particolare momento del film (non sarà difficile notarlo) così che il pubblico possa rilassarsi dopo circa 100 minuti di tensione.
Tre su tre a quanto pare. È un film da 10? Probabilmente no; in realtà se lo si analizza sul piano tecnico, risulta impeccabile (fotografia incredibile, montaggio virtuoso, regia probabilmente tra le migliori di Nolan), anche se non ho apprezzato tutte le scelte di sceneggiatura fatte dal regista, ma sono gusti.
Si può discutere su quanto fosse utile gestire temporalmente il film in modo così articolato.
Nolan viene spesso criticato per questo suo rendere complicate cose che potrebbero essere rappresentate in maniera molto più semplice, ma in Inception, Memento ed Interstellar, la sua idea di cinema e di intreccio di trama si sono rivelati vincenti.
Nel caso di Dunkirk invece, probabilmente viene data poca importanza alla settimana sul molo, e troppa importanza, in rapporto, all’ora in volo. Si soffre con i soldati, ma l’attesa poteva essere resa ancora più snervante.
È importante anche dire che, come molti film dello stesso regista, si apprezza di più vedendolo una seconda volta. La prima visione rischia di non emozionare abbastanza a causa della confusione in cui ci si può trovare quando le tre strade convergono l’una verso l’altra.
Questa non è necessariamente una critica, però una parte del pubblico apprezza film più fruibili ed immediati, e la semplicità non è sinonimo di superficialità.
Lo stesso discorso si può fare per la quasi totale assenza di sangue. Sicuramente è stata una scelta del regista, coraggiosa e alternativa, ma purtroppo la guerra è anche sangue e corpi mutilati e se le bombe colpiscono un uomo sulla spiaggia, è inevitabile che delle ferite, almeno di media entità, debbano essere rappresentate sul cadavere del soldato.
P.S. Harry Styles, per la gioia di svariati milioni di ragazze nel mondo, oltre che essere un “bel” soldato, risulta credibile nei panni di Alex.
VOTO: 8
Articolo a cura di Vittorio Cecere